I

L’animo melodrammatico arcadico trionfa nella poesia del Metastasio cosí come già nei modi della sua esperienza vitale e nella sua poetica esplicita ben si conferma una interpretazione personale delle condizioni spirituali dell’epoca arcadico-razionalistica nel loro valore piú medio e diffuso e nella loro tensione all’espressione poetica. In quell’epoca (e soprattutto nella sua calda sensibilità patetica, nella direzione del «cuore» e delle sue vibrazioni entro un cerchio limpido e limitato di natura-ragione, di realtà-finzione, di dialogo e rapporto «socievole» fra intimità e convenzione) il Metastasio è saldamente inscritto e tale sua posizione è comprovata nella sua stessa incomprensione degli sviluppi piú profondi e rinnovatori di quell’epoca verso l’illuminismo e il preromanticismo della seconda metà del secolo.

Diagnosi dell’animus metastasiano, anzitutto, che trova un materiale eccezionalmente ricco e probante (e, come vedremo, vivo e capace di una doppia utilizzazione: in funzione della sua poetica e dei rapporti vita-poesia, e come autonoma prosa degna di attenzione e di rilievo artistico) nell’abbondantissimo epistolario, anche se questo è piú ricco di riferimenti à rebours sul periodo giovanile romano e napoletano che non, purtroppo, di documenti diretti di quel periodo.

Anzitutto le lettere sono documento dell’essenziale impostazione vitale del Metastasio fra riserbo e controllo (che esclude troppo aperti abbandoni di confessione e che risale all’educazione e al costume razionalistico di autodisciplina e di rifiuto ad un eccessivo compiacimento autobiografico) e una fondamentale fiducia nel rapporto, nel dialogo, nella socievolezza, nella comunicazione e nell’utilità del singolo alla «pubblica felicità».

Come il Metastasio chiarisce in una lettera all’Adami (29 aprile 1757): «Io credo e sostengo che non merita di nascere chi vive sol per sé. Ed in conseguenza di questo dovere dell’umanità mi sono studiato tutta la mia vita di evitare l’interno rimorso di essere inutile ai miei simili potendo fare il contrario»[1].

E se l’amore e il gusto dell’utile e degli agi e piaceri della vita organizzata per tutti non si espande al di là di alcune sparse dichiarazioni poco impegnative (come quelle riguardanti l’apertura del Prater viennese anche alla «povera fanteria»[2]), copiosi sono i casi in cui il Metastasio insiste sui valori dell’onore, della riputazione e del loro interno corrispettivo di moralità altruistica e di rapporto con gli altri, come soprattutto può leggersi nella bella lettera del 3 aprile 1734[3] in cui il poeta dichiara di rinunciare all’eredità della Romanina, a confermare la natura pura del suo amore non venale e a rinsaldare il nodo ben arcadico fra onore, reputazione e coscienza.

Ugualmente è chiara la salda adesione del Metastasio alla prospettiva primosettecentesca di una civiltà legale e non arbitraria in cui gli individui hanno riacquistato una securitas ben diversa dal disperato abbandono del singolo alla violenza e all’arbitrio dei potenti e prepotenti di età barbariche o feudali e semi-feudali, per le quali egli denuncia quel chiaro orrore che è tipico della sua epoca. Sicché in una lettera al fratello[4], eternamente brontolone e scontento nei confronti del proprio tempo, egli ribatte decisamente, con l’orgoglio e la fiducia caratteristica di chi sente di vivere in una civiltà migliore e rischiarata dalla ragione e dalle leggi, anche se, come vedremo, egli stesso era molto critico nei confronti degli sviluppi «illuminati» e «libertini» della civiltà razionalistica: «Ditemi: preferireste voi, al secolo in cui viviamo quelli per avventura che chiamansi favolosi ed eroici? Credereste felicità il trovarvi esposto agli Antifati, ai Procusti, ai Gerioni, ai Cachi, ai Tiesti e agli Atrei? Sono forse (come meno incerte) le memorie istoriche gli oggetti della vostra invidia? Ricordatevi i Mostri e le Furie ch’hanno funestati nel corso de’ loro regni i viventi in Asia, in Grecia, in Egitto. Desiderate per avventura i secoli ne’ quali i nostri Romani hanno tanta onorata l’umanità? Andate, vi prego, enumerando le loro vicende, e vedete se vi piacerebbe di far numero nella bella collezione di Romolo, di vivere sotto Tarquinio, di comprar la libertà con l’evidente pericolo d’esser distrutti, di soffrir la tirannia de’ decemviri, di trovarvi involto nelle turbolenze dei Gracchi o notato nelle proscrizioni de’ triumviri, di tremar sempre alle brutalità de’ Tiberii, de’ Neroni, de’ Caligoli, de’ Caracalli e della maggior parte degli altri Cesari, d’esser sepolto sotto le rovine dello scosso e dissipato impero romano? O sommerso dai barbari torrenti che versò il Settentrione sulle infelici nostre contrade? O smarrito e confuso fra i rischi, gli errori, l’ignoranza e le tenebre de’ secoli che quindi seguirono? Ma senza andar tanto indietro, ditemi solo se contate come piú di voi fortunati quelli da cui nacquero i nostri padri in tempi ne’ quali la gelosia, la vendetta, la violenza, il tradimento, armati di veleni, di sicari e di trabocchetti, erano le piú luminose virtú degli uomini d’alto affare?».

Brano in cui andrà messa bene in rilievo la chiara presa di posizione contro le condizioni semi-feudali dell’epoca barocca, che ricollega il Metastasio agli atteggiamenti dei teorici della «pubblica felicità» e della «pubblica utilità» dell’epoca razionalistica[5], anche se di fronte ad un Muratori la sua posizione, tanto piú limitata e media, si distingue per una tanto minor forza dell’elemento «pubblico» e per una versione piú individuale del tema della sicurezza garantita dalle leggi.

Comunque egli crede nel progresso di una convivenza migliore protetta dalle leggi e dai principi, pastori di popoli, in un ideale governo razionalistico-paternalistico che sembra realizzarsi per lui in quello di Carlo VI e piú di Maria Teresa, «madre» e «padrona» di cui, in una lettera del 27 luglio 1767 al fratello[6], tracciava questo compiaciuto ritratto contraddistinto dal rilievo di qualità regali ed umane degne del sicuro scambio di fiducia fra lei ed il suo popolo: «La maestà, la grazia, la bellezza, l’umanità e quell’anima benefica che sempre hanno distinta questa adorabile principessa, in quel giorno l’adornavano visibilmente a gara, e tutte erano ravvivate dal visibile, giusto ed interno suo contento nel vedersi cosí ben corrisposta da’ suoi sudditi de’ quali ella ha meritato e conseguito d’essere e la delizia e l’amore».

Quella fiducia del popolo nella sovrana come provvidenziale incarnazione delle leggi e regolatrice del ritmo di benessere e di felicità pubblica è poi il centro della morale metastasiana del letterato cortigiano convinto dei suoi «doveri» e della sua parte di collaborazione ad un’attività di illuminata potenza, sicché gli stessi schemi eroico-cavallereschi, anche dei melodrammi piú stanchi e falsi del periodo viennese, corrispondevano pure, almeno come aspirazione, alla speranza di contribuire cosí all’educazione di un’élite dirigente destinata al governo, non al dominio cieco e irresponsabile dei sudditi. Ché, per quanto riguarda la vita di corte con i suoi intrighi e le lotte delle varie fazioni vivacissime nella concreta corte viennese, il Metastasio se ne tenne accuratamente lontano esprimendo chiaramente e piú volte il fastidio delle convenienze piú frivole e del «vortice luminoso» ed effimero degli onori e delle preminenze. Tanto che egli spesso rifiutò persino le distinzioni onorifiche offertegli dagli amati sovrani[7] e si permise a volte di scherzare sulla perdita di tempo causata dalle «cerimonie» della vita di corte[8], tutto preso dal ritmo della sua vita di poeta e dalla convinzione di pagare il suo debito di suddito leale con la sua fedeltà assoluta e con la sua opera letteraria e teatrale. Quel tipo di stato, quel tipo di società e di civiltà nella sua versione piú ottimistica e media (Metastasio vive la sua interpretazione piú profonda della sensibilità entro i saldi termini di valori civili medi non personalmente approfonditi, accettati personalmente come conseguenza della sua radicale adesione ai motivi razionalistici medi della sua epoca) erano i punti di riferimento della sua esperienza socievole.

E proprio alla luce di quell’equilibrio fra esigenze di libertà e sicurezza e l’argine delle leggi dello stato paternalistico illuminato, alla luce di un desiderio di stabilità, di ordine, di moderata libertà (corrispondente nella «civitas» all’ordine provvidenziale-razionale della sua concezione universale), il Metastasio fu portato a reagire agli sviluppi illuministici del razionalismo che egli considerò come aberrazioni e deviazioni da un retto uso della ragione. Come nello sviluppo della sensibilità preromantica egli vide una deviazione del retto uso della natura, un tradimento del reciproco controllo ragione-natura e, come vedremo, una specie di ripresa dell’aborrito barocco, cosí l’illuminismo gli sembrava pauroso avvio di ritorno al disordine e alla licenza di epoche precedenti a quella da lui amata e poeticamente interpretata. Con il concorso della sua stessa concezione del letterato cortigiano, in cui una costante di ascendenza umanistica si rafforzava nella sua convinzione di collaborazione meritoria all’ordine mondano, alle ragioni dei potenti che venne interamente spezzata solo dall’Alfieri e che (al di là della collaborazione piú attiva e illuministica del Parini) poté in qualche modo continuarsi, in contrasto con i nuovi ideali alfieriano-foscoliani, nella concezione montiana contraddistinta da un senso della responsabilità solo formale e letteraria del poeta che lo stesso Metastasio non avrebbe del tutto accettata con una storicità, a suo modo, piú convinta e giustificata e centrale. Sicché solo l’Alfieri avrebbe potuto avvertire (pur con la riserva autoironica sul giovanile plutarchismo) la viltà della sua fedeltà cortigiana, che nel pieno Settecento non trovò invece obbiezioni e che noi stessi dobbiamo considerare senza inutili sdegni postumi e nelle sue ragioni interne e storiche non spregevoli nello sviluppo dell’epoca arcadico-razionalistica, specie quando si rifiutino le interpretazioni assurde, di origine carducciana, sull’«alma romana» ed eroica del Metastasio.

Deve essere dunque ben chiaro il limite che trattiene il Metastasio tutto entro l’epoca arcadico-razionalistica (e al di fuori dei suoi fermenti piú avanzati e delle sue istanze piú profonde e suscettibili di sviluppo illuministico piú diretto): limite e adesione che lo porterà sempre, nella vecchiaia, a rimpiangere quell’epoca e a farsene lodatore e conservatore persino acido e risentito come nella difesa del suo vero mondo poetico cosí legato alle condizioni medie, agli ideali del suo vero tempo e della sua immagine di quello sempre piú ricercato nella sua versione di ordine e rifiutato nei suoi elementi piú rivoluzionari. Donde certi riesami della sua stagione napoletana e la critica delle posizioni piú avanzate antigesuitiche, anticuriali e foriere di pensiero libertino, già vive nell’ambiente napoletano dei primi decenni del secolo. Come si rileva in certi ironici ricordi dell’«ardente falange antivaticana»[9] dei razionalisti napoletani, o, già in una lettera del 16 settembre 1747 all’Algarotti[10], nei richiami ironici al bagaglio culturale della gioventú della sua generazione utilizzato nel «sapersi scagliare anche fuor di proposito contro i gesuiti e contro la bolla Unigenitus».

Evidentemente quei giudizi senili non combaciavano con la precisa situazione del giovane Metastasio, sulla quale purtroppo non possediamo che scarsissimi documenti (l’epistolario metastasiano, prima del periodo viennese, è quasi inesistente), ma che, solo a pensare alla forte influenza graviniana e ai primi componimenti poetici, dové essere assai piú spregiudicata e influenzata dagli elementi vivi della cultura napoletana quali si possono ora ben riconoscere nella descrizione critica del libro del Badaloni[11] e nella sua individuazione del «côté» degli illuminanti e del Gravina. Basti almeno ricordare, nella Morte di Catone, l’accenno ad una religiosità non legata al culto e ai templi

(E poi perché degg’io Giove superno

negli aditi cercar, se il trovo espresso

ovunque mi rivolgo, ovunque scerno?),[12]

e l’insistenza sull’unica norma del saggio che si avvale solo del suo «lume interno», della ragione, raggio divino calato nell’uomo per trarre dal «vasto sen dell’infinito» «il seme eterno del bene oprar»[13].

Anche se, già in questi componimenti giovanili, gli impegni ideologici e combattivi del Gravina appaiono risolti in un piú generale e pur graviniano ideale di saggezza e di appello razionale e provvidenziale

(Noto prima a te stesso esser proccura,

preceda ogni opra tua saggio consiglio,

e poi lascia del resto al Ciel la cura)[14]

e in una generale spinta platonizzante che oppone alla frivolezza dei beni mondani la saggezza di chi, guidato dalla ragione, cerca «una tranquilla pace» nel «non cangiar mai il core», nel non macchiarsi di errori e peccati

acciò che l’alma del suo fango pura

ritorni lieta allo splendor natio,

e nel comprendere che

colui la propria vita ha piú disteso

che non dai giorni il viver suo misura,

ma da quel che conobbe ed ha compreso.[15]

Affermazioni che comunque si potrebbero appoggiare su citazioni precise delle tragedie graviniane, specie del Papiniano.

Saggezza e nesso ragione-provvidenza celeste che si incontrerà sempre piú con uno schietto amor vitae piú adeguato alla visione arcadica, e si consoliderà in un cattolicesimo razionalista poco approfondito e poco precisato, mentre la lezione morale graviniana seguiterà a premere sulla aspirazione metastasiana alla virtú, che, portata poi agli eccessi astratti del «sublime» eroico-cortigiano, ha però sempre una sua radicale importanza nel mondo melodrammatico metastasiano, rafforzando la tensione delicata e gentile di un patetismo nobile e generoso e insieme recidendo la possibilità di una vera intuizione poetica del mondo del male, dei sentimenti malvagi e peccaminosi che il Metastasio respinge e – se li rappresenta – schematizza senza profonda partecipazione, ricavandone semmai note indirette di mestizia elegiaca.

Ma, come dicevo, nell’epoca viennese e nel progressivo dissenso del Metastasio rispetto agli elementi piú corrosivi e critici del razionalismo in direzione illuministica, i limiti conservativi e addirittura reazionari del poeta cesareo, la sua distinzione di una libertà moderata e iscritta in un ordine terreno e provvidenziale saldo e statico, si vengono profilando con progressiva chiarezza.

Non solo il Metastasio non volle saperne (pur con scuse prudenti ed evasive) di collaborare alla Enciclopédie[16], ma, specie dopo il ’60, sempre piú apriva, seppur con intimi, le sue preoccupazioni e i suoi sdegni a proposito della lotta antigesuitica, identificando (egli non «filogesuita» ed «educato e nutrito ai sentimenti poco favorevoli a quella specie di individui che voi mi nominate»[17]) in quella lotta ragioni ed obbiettivi piú vasti e pericolosi e addirittura l’avvio ad una «anarchia temporale e spirituale»[18] che egli veniva presagendo e prefigurando con foschi colori.

Sia che descriva la situazione della corte di Vienna, intorno al ’70[19] («Io partecipo e godo con voi di cotesta comoda, lieta, opulenta e tranquilla segregazione dal nostro turbolento commercio, dove gl’ingegni piú fervidi ed applauditi, professandosi protettori dell’oppressa (dicon essi) umana società, s’affaticano con ogni sforzo a distruggere tutti i sacri e profani vincoli che la conservano. Non potete immaginarvi quanto dopo la vostra partenza siasi accresciuta la loro baldanza ed il numero insieme dei giovani proseliti dell’uno e dell’altro sesso. Sono cosí rapidi i progressi dell’empietà e della licenza, che a dispetto dell’età mia io temo di giungere ancora in tempo di essere spettatore del bellum omnium contra omnes dell’ardito filosofo inglese»), sia che piú oscuramente invochi l’intervento divino a riportare luce e calma «in quello strano universale fermento nel quale al presente si trovano le sacre e le profane cose in tutta la terra conosciuta» (fermento prodotto da un fuoco che «arde nascosto da lunghissimo tempo»)[20], sia che, piú ampiamente, spieghi al fratello[21] i frutti dell’«enorme frenesia irreligiosa, che tutto contamina interamente il nostro secolo», e dell’opera di coloro che «intolleranti di qualunque ecclesiastica o secolare podestà, professandosi teneri amici degli uomini, ne sovvertono intanto la necessaria società, spezzando i piú sacri, i piú antichi e i piú solidi legami della medesima; e che dilatando il nome di libertà oltre i giusti confini della prudente definizione di Erennio Modestino, chiamano violenze tiranniche quelle regole che sono figlie della libertà medesima, che la dirigono, non la distruggono, e che ne limitano una parte per non perderla tutta. Cotesta enorme licenza di pensare e di parlare raduna facilmente proseliti, perché trova partigiani ed avvocati efficacissimi nelle nostre passioni, alle quali paiono subito lucidi ed incontrastabili tutti i raziocini che loro tolgono quel freno che convien pur che si soffra se si vuol vivere insieme. Non veggo perciò apparenza che il mondo risani da cotesto epidemico delirio a forza di ragioni: convien che funeste conseguenze, a poco a poco intollerabili a tutti, disingannino col fatto. Questa terribil crisi dee per necessità seguire e forse è cominciata; ma prima che il tutto prenda di nuovo il suo equilibrio sa Dio che sarà di noi»[22].

Mentre in una diagnosi satirica (che può far pensare a temi pariniani in una direzione cosí diversa) della piú lata situazione di costume, da cui egli vedeva emergere la piú precisa «licenza» contro l’ordine sacro e profano, il Metastasio denunciava il pericolo di una educazione della nobiltà viennese (composta di «semidei» individualistici e libertini e non di «eroi» virtuosi e fedeli al trono e all’altare) da parte di precettori francesi[23] o dimostrava la sua antipatia per la filosofia del commercio[24] rivelandoci (ad un livello di giustificazioni diverse da quelle del simile tema pariniano e alfieriano) ancora una volta la sua fedeltà a ideali di tipo fisiocratico dell’epoca arcadica (in cui egli e l’Arcadia trovavano un vivo contatto fra la tematica idillico-pastorale e ideali sociali di stabilità feconda e di ragionevole, ordinato progresso) e insieme (secondo il senso dominante della lettera citata) il rimpianto del letterato arcade per l’abbandono della «bella letteratura» e degli ideali culturali-letterari arcadici a favore dell’utilitarismo delle scienze e delle attività economiche e militari.

Tutto rinvia, in queste prese di posizione contro vari aspetti del secolo illuminato (che rendevano cosí caro Metastasio a certe zone della restaurazione[25]), a una centrale posizione arretrata nel tempo fino agli ideali medi, e già usufruiti in una direzione prevalente di ordine, di prudenza, di tranquillità (fuori dunque delle linee ideologiche piú ardite della stessa epoca), dell’età arcadico-razionalistica di primo Settecento, a cui chiaramente rinviano gli accenni, sopraricordati, nella lettera al fratello del 22 novembre 1767. Tutto rinvia alla nozione metastasiana di «necessaria società», di «regole che sono figlie della libertà medesima, che la dirigono, non la distruggono e che ne limitano una parte per non perderla tutta».

Di quell’epoca Metastasio continuava a vivere gli ideali etico-civili piú centrali e medi entro un contesto storico cosí diverso, e dall’adesione convinta a quelli era nato l’afflato storico della sua poesia.

E infatti, alla stessa maniera, come sopra accennavo, anche di fronte agli sviluppi della sensibilità e della letteratura al di là dell’Arcadia nell’epoca illuministica, preromantica e neoclassica, entro cui continuarono a svolgersi la sua lunga vita e la sua lunga attività di scrittore, il Metastasio reagiva sulla base della sua formazione e della sua consolidata conquista personale-storica di poetica e di poesia.

E se caratteristico del gusto arcadico è il ricordato rimpianto della «bella letteratura» (che ricorda certe spiegate dichiarazioni del Tommasi di fronte allo sviluppo della letteratura di tipo didascalico-illuministico) e se, anche rispetto all’infatuazione neoclassica per i greci, si potranno ricordare le osservazioni sul teatro greco piene di riserve sul disordine, gli eccessi, le imprudenze e sconvenienze dei grandi tragici greci (che precisano il limite arcadico del classicismo metastasiano), è soprattutto nei riguardi degli svolgimenti della sensibilità preromantica che le reazioni del Metastasio appaiono piú sintomatiche per la sua sensibilità, il suo gusto e la sua stessa Weltanschauung.

Egli, che è sempre cosí accogliente con i componimenti poetici inviatigli dai loro autori, non può tenersi dall’ammonire il Rovatti (che gli aveva inviato delle poesie «sepolcrali»[26]) circa il discutibile gusto di un uso compiaciuto di «funebri immagini dell’ultima dissoluzione» e dall’incoraggiarlo a correggere il suo «ipocondriaco temperamento» risolvendo cosí i caratteri del gusto lugubre preromantico in una vera e propria situazione morbosa a cui contrapponeva i vantaggi della sua esperienza di «ipocondriaco» condotta dalla saggezza e dal commercio degli uomini ad una serenità sostanziale[27]. E in un lettera al Bottoni, noto traduttore delle Notti di Young[28], la lode al tetro scrittore inglese è tutta percorsa da limiti ben significativi: non solo l’«ordine negletto», «le frequenti ripetizioni», ma soprattutto «l’ostinato costume di mostrarci sempre gli oggetti dal lato lor piú funesto e di non volerci condurre mai alla virtú per altra via che per quella della disperazione»[29].

Al fondo di questi dissensi letterari vive in realtà il centrale ottimismo arcadico-razionalistico del Metastasio, il suo bisogno di una fruizione saggia dei beni offerti dalla natura, anche nei suoi contrasti e nella sua varietà, di cui può essere insegna sintomatica la nota paginetta sull’inverno moravo e sul piacere delle varie stagioni che è chiaro motivo di raccordo con un tema tipicamente arcadico (ripreso poi, a vari livelli, in tutto il Settecento europeo letterario e musicale, ma costitutivo dell’edonismo e della «saggezza» idillica dell’Arcadia[30]): «Abbiam fin ora goduta, e qui ed in Frain, la piú ridente stagione che potesse desiderarsi; ma da quattro giorni in qua è comparso inaspettatamente l’inverno teutonico con tutto il suo magnifico treno: e senza aver mandato avanti il minimo precursore del suo arrivo. Tutto è ricoperto di neve. Il fiume, non che i laghi e gli stagni, si sono in un tratto saldissimamente gelati: ed una sottilissima auretta, spirante da’ sette gelidi Trioni ci rende i suoi omaggi fin dentro alle nostre piú interne e custodite camere, nelle quali ci siamo fortificati. Con tutto questo improvviso e stravagantissimo cambiamento della natura io, che non era nato per la strepitosa magnificenza delle Corti ma per l’oziosa piú tosto tranquillità d’Arcadia, ritrovo qui tuttavia, a dispetto degli allettamenti cittadini, moltissimo di che compiacermi. Mi diletta quell’uniforme candore che per cosí gran tratto di terreno io mi veggo d’intorno: mi piace quel concorde silenzio di tutti i viventi. Mi trattiene quell’andar ricercando con gli occhi le conosciute vie, gli alberi, i campi, i cespugli, i tuguri pastorali, e tutti quei noti oggetti, de’ quali la caduta neve ha cambiato affatto il colorito, ma conservato rispettosamente il disegno; considero con sentimento di gratitudine che quell’amico bosco che mi difendeva poc’anzi con l’ombra da’ fervidi raggi del sole or mi somministra materia onde premunirsi contro l’indiscretezza della fredda stagione; insulto con diletto all’inverno, ch’io veggo ma non provo nella costante primavera del nostro tepido albergo: ma quello di che, per impulso d’amor proprio, io piú sensibilmente mi compiaccio, è l’andarmi convincendo che al pari delle altre stagioni abbia l’inverno ancora i suoi comodi, le sue bellezze e i suoi vantaggi»[31].

Ma si tratta di un edonismo e di un ottimismo non volgare (diverso dall’epicureismo godereccio di un Frugoni o di un Van Loo), insaporito da una intensa venatura di meditazione sulla sorte degli uomini, capace di avvertirne gli elementi amari fino a certe piú risentite e pessimistiche diagnosi totali, che, nel periodo piú tardo, rivedono (come da una prospettiva piú delusa e disingannata e quasi al di là del cerchio di una saggezza cosí e quasi troppo tenacemente esercitata) l’illusorietà e la «teatralità» immorale del mondo: «in questo sporco teatro del mondo»[32] ... «tutto è favola, caro fratello, in questo sporco teatro in cui siamo»[33]...

E non a caso tornano qui (ma con un accento piú doloroso e tetro, corrispettivo di una estrema stagione senile sempre piú solitaria e priva del ricambio vitale con un vero «commercio» degli uomini e con lo sviluppo della storia) le parole «teatro» e «favola», quando si pensi a quella singolare e quasi sconcertante meditazione poetica del celebre sonetto del 1733 sulla composizione dell’Olimpiade.

Sogni e favole io fingo; e pure in carte

mentre favole e sogni orno e disegno,

in lor, folle ch’io son, prendo tal parte

che del mal che inventai piango e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,

piú saggio io sono? È l’agitato ingegno

forse allor piú tranquillo? O forse parte

da piú salda cagion l’amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle ch’io canto o scrivo

favole son: ma quanto temo o spero,

tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.

Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,

fa ch’io trovi riposo in sen del vero!

Sonetto che, mentre rimanda al rilievo delle singolari condizioni di intensità di quell’anno creativo supremo (immedesimazione del poeta nella sua opera, partecipazione del poeta alla vita sentimentale dei suoi personaggi e insieme coscienza della sua creazione «verisimile», ma non «vera», capacità di distacco critico che comprova la forza e la coscienza metastasiana della «finzione» poetica), sottolinea piú in generale questo bisogno di una verità piú salda di quella apparente, sino al margine di un impeto mistico surrogato realmente da una lucida passione di verità, e l’amara coscienza di collaborare ad una vita effimera, ad una vita-sogno che mette in pericolo, con un baleno di disinganno esistenziale, tutta l’assidua costruzione di un mondo illuminato dal convergere di natura e ragione.

E cosí il pur celebre recitativo di Timante nella seconda scena del terzo atto del Demofoonte è tutt’altro che una parlata casuale e puramente funzionale al diagramma dell’azione (anche se in tal funzione esso opera poeticamente) e implica uno scavo doloroso nella realtà da parte di un’esperienza a suo modo approfondita, una diagnosi lucida, uno scandaglio razionalmente coerente e appuntito sull’esistenza umana che permea, a ben guardare, tutto il fondo dell’opera metastasiana e lo sottrae alle condizioni di un edonismo tutto frivolo e letterario. Anche se la conclusione è altra (come lo è nel melodramma) e una risalita alla fiducia, alla saggezza, ai soccorsi della «morale filosofica» non manca mai nel circolo piú vivo ed attivo della visione vitale del Metastasio.

Perché bramar la vita? e quale in lei

piacer si trova? Ogni fortuna è pena;

è miseria ogni età. Tremiam, fanciulli,

d’un guardo al minacciar; siam giuoco, adulti,

di Fortuna e di Amor; gemiam, canuti,

sotto il peso degli anni. Or ne tormenta

la brama di ottenere, or ne trafigge

di perdere il timor. Eterna guerra

hanno i rei con se stessi: i giusti l’hanno

con l’invidia e la frode. Ombre, deliri,

sogni, follie son nostre cure; e quando

il vergognoso errore

a scoprir s’incomincia, allor si muore.

Ma questo scandaglio (pur nei limiti di una certa simmetria ragionativa e con punti piú deboli nella trama salda e stringente) è stato operato e da questo risulta quell’insieme di attenzione e di paura (e, a un certo punto, quando l’equilibrio minaccia di rompersi, di rifiuto di guardare fino in fondo) di fronte ai grandi temi e alle occasioni di meditazione pessimistica che il tempo offrí al Metastasio, specie nella zona piú tarda della sua vita. Come di fronte al terremoto di Lisbona del 1755 (test essenziale per l’atteggiamento metafisico e ideologico di tanti uomini del secolo[34]), come di fronte al problema maupertuisiano della somma dei beni e dei mali, dei piaceri e dei dolori nella vita dell’uomo che dal Metastasio viene risolta ottimisticamente[35], ma non senza un’intima esitazione e, d’altra parte, con una volontà di non spengere mai la sensibilità (madre dei piaceri e dei dolori) che ben testimonia come la saggezza di Metastasio non sia il frutto di impassibilità frigida, ma il risultato di una scelta volontaria che pur non ignora l’attrazione delle conclusioni pessimistiche. Come anche meglio si chiarisce in quella lettera del 31 gennaio 1750 alla Pignatelli[36], che partendo appunto dal problema del bilancio maupertuisiano, conclude con la dichiarazione esplicita di non voler essere trascinato in un «abisso di dubbi» e con la doppia e univoca soluzione di una salvezza nella poesia e nella saggezza ottimistica e provvidenziale-razionale, intonata a un linguaggio «sensibile» e sin volgaruccio, se si vuole, che è poi esso stesso una scelta di calore mondano e di legame con esso della sensibilità poetica.

Il Metastasio non discute la provvidenza, non indaga sul destino degli uomini, ma ne avverte le amare pieghe come ne ama l’esito felice. Cosí il suo diagramma melodrammatico fra elegia ed idillio nasce dall’intimo del suo animo e della sua visione vitale e in poesia ciò che nelle lettere è piú celato, e pur traspare, si espande nella continua vibrazione ondeggiante dei personaggi fra timori e speranze, fra pessimismo e ottimismo, sotto la spinta di un destino che alterna lusinghe e minacce e solo alla fine rivela il suo volto provvidenziale-razionale. Tutt’altro che chiuso, arido e insensibile[37] di fronte ai problemi dell’esistenza umana, tutt’altro che ottuso alla consapevolezza dei dolori della vita e della malvagità umana (donde la paura costante di diventare «misantropo» e la conversione di una scoperta dolorosa piú in compassione che in sdegno[38]), anche di fronte alla cesura inesorabile della morte[39] il Metastasio ne avverte la lacerazione sino al senso profondo della trasformazione del mondo in un «popolatissimo deserto» a causa della morte della persona amata, e insieme tende a superarla con la sua conquistata saggezza, frutto di educazione e di tendenza naturale-storica come in qualche modo è la sua stessa arte.

E il risultato, ancora una volta, saranno una fiducia e un ottimismo senza baldanza, con qualcosa, se si vuole, di poco profondo e di poco impetuoso (i limiti chiari del Metastasio e della sua poesia), ma dotati di consapevolezza e di esperienza, venati di trepidazione e di ansia, e perciò capaci di sostenere una poesia misurata e sensibile, di cui avvertiamo i presupposti vitali nella sensibilità stessa dell’uomo, dominato e controllato, ma sotto irrequieto e spinto sino alla «nevrastenia» e alla «ipocondria»[40].

Ma un ipocondriaco che si salva con l’autoironia (fino alla creazione, nelle lettere, di un autentico «personaggio» dolentemente comico, con il suo immancabile seguito di «flati ipocondriaci», di «cancheretti» e «cancherini» che assediano la sua povera «macchinetta»), con la saggezza esercitata con se stesso e con gli altri di cui si fa consolatore paziente, sensibile e lievemente ironico nel ribadire i principi della «moral filosofia», dell’esercizio della vita nel conforto della socievolezza, dell’equilibrio fra piaceri e dolori[41], del fondamentale slogan secondo il quale «l’arte, anzi l’obbligo nostro è di adattarsi alle vicende umane, persuasi della temeraria pretensione di adattare quella a noi»[42].

Con una gamma di sfumature e di toni che svariano, a seconda del destinatario e dell’occasione, fra certa severità solenne e convinta, adoperata specie con l’irrequieto e fastidioso fratello[43], e la garbata, ironica galanteria con cui instancabilmente contiene le poussées pessimistiche e «ipocondriache» della contessina Orzoni Torres.

Cosí dalla lettura dell’epistolario (ben tenendo conto della sua ubicazione cronologica sbilanciata verso la lunga vecchiaia del Metastasio e quindi dell’accrescersi degli elementi già esaminati di amarezza-saggezza, di dissenso col tempo piú vivo e progressivo[44]) risulta un ritratto dell’uomo ben coerente come sostegno di alcuni atteggiamenti e temi del poeta e molto interessante per la sua situazione personale-storica. Con chiari limiti nella direzione dello slancio, dell’energia aperta, dell’avventura , dell’appassionato «eroismo» («il mestiere dell’eroismo è mestiere da facchino», dirà nella lettera del 25 agosto 1764 al Farinelli[45], e la frase con tutto il suo di piú ironico par davvero un controcanto assai significativo alla tematica assurdamente eroica prevalente nei melodrammi senili) volto nel senso di sopportazione, di pazienza, di prudenza[46], di «difesa» esercitata nella vita privata, e non mancante di una sua dignità di controllo, di accettata convenzione pedagogica, che insieme sforza e fa vibrare piú sottilmente una innegabile vita di sentimento piú scopertamente risolta nella vita della sua poesia e dei suoi personaggi poetici.

A cui lo stesso tema della «perplessità», tanto accarezzata e sofferta fra ironia e autocoscienza[47], offre un sostegno vivo, personale, di esperienza, di una condizione umana cosí sottilmente complicata e sensibile fra desideri, inquietudini, tormenti della sensibilità e controllo anche tormentoso della ragione.

Mentre, nel campo dell’esercizio dei sentimenti (ribadito il fatto che il Metastasio sembra riservare il fondo piú intenso di essi per la sua poesia anche con qualcosa di geloso ed avaro, di poco generoso[48]), in una posizione nettamente antiromantica e antiautobiografica, ben si avverte l’incontro di una vibrazione sottile ed autentica e di un’arte squisita e salda di autodominio e di dominio delle passioni proprie ed altrui deviate da ogni esplosione troppo aperta, turbatrice, invereconda.

Come può vedersi nella lettera viennese ad un’ignota signora di Dresda[49] per ridurre e contenere una passione nascente, impossibile e pur non negata, o in quelle alla Romanina in cui il Metastasio sviluppa, con mano squisita, tutta una sottile arte di graduazione della tenerezza, della severità e della saggezza, dell’ironia, a seconda che, in quella relazione, diventata cosí difficile e sin pericolosa, egli voglia frenare le impazienze dell’amica gelosa, deviare l’antica passione nelle forme di una affettuosa amicizia, o risvegliarne alcune speranze riassorbendole poi in avvertimenti ironici e patetici di saggezza[50]. Entro la prudenza la tenerezza, l’elegia, la forza del ricordo amoroso che ritorneranno nell’Olimpiade e nel Demofoonte e che qui vivono piú contenute e controllate e cosí, in qualche modo, già dirette a una espressione filtrata e distinta e comunque mai abolite in un rifiuto totale di esse, in un gelo assoluto di egoismo e di insensibilità.

Certo un atteggiamento molto diverso da quello di altri temperamenti e di altre posizioni storiche, ma che va inteso nelle sue ragioni interne, nel suo rapporto con la poetica e con la poesia metastasiana, con il suo lucido dominio della sensibilità in funzione artistica e teatrale, con la sua conoscenza, la sua sollecitazione e controllo del cuore e delle sue «vibrazioni» e «modificazioni» fuori di ogni impeto rozzo e passionale, in una cultura dei sentimenti raffinata e non perciò arida e fredda, ricca com’è di gamme di gentilezza, di pietà, di simpatia per le vicende sentimentali piú direttamente esercitate nella zona fervida della gioventú e degli incontri umani piú scoperti degli anni giovanili. E di fronte a cui ogni impazienza nostra rischia di escluderci dall’ingresso preliminare in una Stimmung sentimentale e culturale che richiede invece comprensione e iniziale adesione per poterne appurare i motivi genuini e accedere a un’arte che sarebbe stolto negare e ignorare in base a confronti antistorici e a richieste di aperta «passione», di impetuosa sincerità. O prendere o lasciare: per me preferisco scegliere la prima strada e risalire dall’interno a nuclei di una personalità e di una poesia pur cosí lontane dalla mia personale «poetica» e umanità e pur cosí segnate da limiti personali e storici ben evidenti.

Mentre l’epistolario rivela, già su piano artistico, il suo valore di prosa che non è stato mai sottolineato come si dovrebbe ad ampliare la nostra intera conoscenza e la nostra intera valutazione del Metastasio, delle sue capacità espressive e costruttive, della sua arte di sfumatura, di lucidità, di concisione, di modernità semplice ed elegante.

Ricco di veri e propri capolavori arcadico-razionalistici, l’epistolario metastasiano si impone anzitutto al lettore (cosí al di là di certa prosa arcadica severa del Gravina e diversa da quella fusa e armonica del Muratori) per la sua estrema lucidità, per la sua capacità di dare evidenza nitida e distinta (che il Metastasio tanto lodava, d’accordo con il suo tempo, nei propri corrispondenti[51]) alle cose riferite in un taglio riassuntivo e miniaturistico perfetto che corrisponde all’arte della ricapitolazione e dell’esposizione degli antefatti tanto ammirati dal De Brosses nei suoi melodrammi[52], con un consenso molto significativo da parte del «francese» a uno scrittore italiano che tanto aveva tratto dall’educazione razionalistica e francese e tanto contribuiva ad amare l’arte di chiarezza della prosa e poesia italiana dopo l’enfasi e il turgore barocco[53].

Basti almeno ricordare in proposito, su di un piano piú esterno, la lettera in cui il Metastasio prepara un complicato trasferimento di cavalli da Vienna alla Spagna precisandone l’itinerario e le condizioni di viaggio[54] (vero tour de force dell’intelligenza e della penna), o, su di un piano piú chiaramente artistico, quelle numerose in cui dà notizia e relazione di battaglie delle guerre di successione polacca e austriaca e poi dei sette anni, in cui, sulla spinta di una curiosità nitida e vivace (che prevale sull’interesse del buon suddito austriaco[55]), il gusto della precisione e del movimento, in una misura breve e riassuntiva, si esalta fino al risultato di una carta strategica in miniatura, animata, colorita e limpida, o di un movimento scenografico minuto, fervido, piacevolissimo[56].

Mentre, sul piano della capacità di costruire «personaggi» vivi e insaporiti di «humour», si ricordi almeno il modo indiretto con cui dalle lettere al fratello Leopoldo e alla contessa Orzoni-Torres, emergono, in controluce con l’animo e l’intelligenza vigile e superiore dello scrittore, le figure di questi due corrispondenti: il fratello vanitoso, spendereccio, rissoso, pieno di manie mondane e letterarie malcollocate, avvocato di cause perse e maldestro moralista (una vera figura di opera comica, ma venata di una certa patetica simpatia che traluce tra l’impazienza e l’indulgenza fraterna), e la contessa italo-austriaca con i suoi «vapori», con le sue paure avventate, con la sua leggerezza di giudizio, a cui il Metastasio oppone, in modi seri ed ironici, la sua filosofia morale, pur aprendosi (come nelle lettere al fratello) di quando in quando a confessioni e a conclusioni piú amare, a consonanze di uomo esperto dei mali della vita e della malvagità degli uomini.

E si rilegga almeno la gustosa lettera al fratello che vuol dimagrire per ragioni estetiche: «Spero che, molto prima dell’arrivo di questa, vi avrà lasciato in pace il vostro illepidissimo morbo attico. Se volete seguire il mio avviso, piú tosto che divenire snello per via cosí fastidiosa lasciate pure che pinguis aqualiculus propenso sesquipede extet. E pregate il Cielo come il buon Flacco pingue pecus domino facias et caetera, praeter ingenium. Alla fine una bella pancia ben organizzata e presentata maestosamente a tempo e luogo, paga sempre con usura di rispetto la piccola fatica di chi la porta. Se non foss’altro che quell’idea di opulenza che vi muove dovunque comparisce! E poi fate un poco di riflessione a certi personaggi gravi e venerabili: troverete che la maggior parte ingombrano un enorme sito con la loro circonferenza. Che rimarrebbe a tanti priori, provinciali, guardiani, generali e simili altri valent’uomini, se si togliesse loro l’invidiabile merito di quelle solenni pance graduate? E voi siete cosí dolce da posporre una bella pancia ad un inquietissimo tenesmon! È forse in grazia della parola greca! O Coridon! Coridon! A proposito di pancia, mi rallegra che abbiate conoscenza col reverendissimo padre Chiaberge»[57]. O, fra le lettere alla Orzoni, si rilegga almeno quella, fra ironia e galanteria, sulle donne[58]: «La vostra gentilissima lettera del 16 del cadente m’inspira, riverita signora contessina, un poco di rivalità verso di voi. Veggo che in essa vi assumete la libertà di usurpar lo stile di noi altri ipocondriaci consumati: avete l’ardire di riempire la vostra lettera d’idee pavonazze, e trascorrete sino all’eccesso di moralizzare sulla brevità, sull’incertezza e sul poco valore della vita umana. Chi vi ha autorizzato, riverita signora contessina, a mietere ne’ campi altrui? Questo non è mestiere per le belle. Elle sono destinate per delizia e sollievo del genere umano, e quando fanno il contrario si oppongono alle venerabili leggi della natura. Se vi piace di filosofare, scegliete una setta che si confaccia meglio al vostro naturale istinto. Le idee ridenti di Democrito vi si adatteranno meglio che il tuono lagrimevole d’Eraclito. Queste querule e lamentevoli espressioni stan cosí bene ad una vostra pari, come starebbero ad Aristotele ed a Platone il rossetto e le mosche. Che insaziabilità! Non vi ha forse fornite la natura di sufficiente campo dove esercitare e compiacervi de’ vostri invidiabili talenti? Non vi basta d’esser le apportatrici della gioia dove comparite? Vi par picciola la facoltà di confonder a piacer vostro gli animi piú ordinati e sicuri, di mansuefar la ferocia? d’umiliar la superbia? di rammollir l’ostinazione? di dar ingegno a’ piú balordi, e di toglierlo a’ piú perspicaci? Che lascerete a noi poveri sventurati fantocci, se tentate usurparci fino l’ipocondria? Mi consolo che a vostro dispetto non potrà mai riuscirvi, lo sento per prova che le vostre idee tetre mi risvegliano piú l’imagine di chi le scrive, che della miseria umana. Ed in vece di disgustarmi della vita, mi persuadono a conservarla per esser lungo tempo con lo stesso invariabile rispetto vostro, ecc. ecc.».

Mentre, con un variare di personaggi-Leit-Motive che anima la partitura generale dell’epistolario, le lettere ad un altro corrispondente fondamentale, il cantante Farinelli, si aprono a toni festosi e scherzosi, quasi riecheggianti la letizia giovanile del comune soggiorno napoletano e romano che certo costituí nella memoria attiva del poeta la riserva piú ricca di esperienze vitali, la zona fervida della gioventú di cui ritorna l’eco nel ricordo suscitato da un minimo accenno, come diceva in un’altra bella lettera al Filipponi, del 5 marzo 1746: «(la vostra lettera) risvegliando nell’animo mio una folla di care e ridenti memorie di accademie, passeggiate, cicalate, dispute, simposii, il Vomero, Chiaia, Strada Giulia, Porta del Popolo, ed infinite altre somiglianti, è andata ricercando ogni piú riposta e sensibile parte del cuor mio»[59].

Proprio sul tema del ricordo può emergere un carattere fondamentale dell’animo e dell’arte metastasiana. Il ricordo, per quanto tenero e commovente, non si svolge in aperto abbandono e rimpianto nostalgico, in moti di esuberanza emotiva, ma commuta la sua forza in pienezza e nitidezza di rappresentazione, in forma di recupero di una scena viva, riferita come presente.

Già su questa direzione va condotta la celebre lettera sul soggiorno calabrese il cui ricordo vien suscitato da alcuni accenni del Mattei: «Ho riveduto come presenti tutti quegli oggetti che tanto colà allora mi dilettarono. Ho abitata di bel nuovo la cameretta dove il prossimo fiotto marino lusingò per molti mesi soavemente i miei sonni; ho scorse in barca con la fantasia le spiagge vicine a Scalea: mi son tornati in mente i nomi e gli aspetti di Cirella, di Belvedere, del Cetraro e di Paola: ho sentito di nuovo la venerata voce dell’insigne filosofo Gregorio Caloprese, che adattandosi per istruirmi alla mia debole età, mi conduceva quasi per mano fra i vortici dell’allora regnante ingegnoso Renato, di cui era egli acerrimo assertore, ed allettava la fanciullesca mia curiosità or dimostrandomi con la cera quasi per giuoco come si formino fra i globetti le particelle striate, or trattenendomi in ammirazione con le incantatrici esperienze della diottrica. Parmi ancora di rivederlo affannato a persuadermi che un suo cagnolino non fosse che un orologio, e che la trina dimensione sia definizione sufficiente di corpi solidi; e lo veggo ancora ridere quando, dopo avermi per lungo tempo tenuto immerso in una tetra meditazione facendomi dubitare di ogni cosa, s’accorse che io respirai a quel suo Ego cogito ergo sum: argomento invincibile di una certezza ch’io disperava di mai piú ritrovare»[60]. Quadro nitido, affettuoso, pieno, in cui il ricordo riaffiora con le condizioni di un lieto presente ed evita ogni ingorgo sospiroso, sí che, poi, la lettera si chiude rapidamente tra l’accenno ad un inizio di sopraffazione della memoria e una gentile scusa epistolare di non portar via piú tempo all’amico, che è una forma di elusione di ogni sovrabbondanza emotiva, di ogni turbamento del quadro cosí interamente delineato.

E ancora piú interessante su questa direzione è l’altra celebre lettera alla Romanina, da Vienna, sul carnevale romano[61], un autentico piccolo capolavoro del gusto settecentesco e della poesia teatrale metastasiana: «Oggi è appunto il primo giorno delle maschere, e io son qui a gelarmi. Pure mi trattengo piacevolmente, figurandomi voi impiegata e divertita. In questo momento, che secondo l’orologio di Roma saranno le 21 ore, comincerà la frequenza de’ sonagli pel Corso. Ecco il signor canonico de Magistris, che apre l’antiporta. Ecco il signor abate Spinola. Ecco Stanesio. Ecco Cavanna. Ecco tutti i musici di Aliberti. Chi sarà mai quella maschera che guarda tanto le nostre fenestre? Fa un gran tirar di confetti, e non può star ferma. – È certo l’abatino Bizzaccari. – E quel bauttone cosí lungo che esamina tutte le carrozze, fosse mai il bellissimo Piscitelli? – Certo; senza dubbio. – Ecco il conte Mazziotti, che va parlando latino. – Ecco i cortegiani affettati vestiti di carta. – Ma che baronata è mai questa! Quasi tutte le carrozze voltano a San Carlo. – Che cosa è? – Il segno. – Presto. – Viene il bargello. – Venga, signor agente di Genova. – Non importa. – Ma se v’è luogo per tutti? – Vede ella? – Vedo benissimo. – Ma mi pare che stia incomodo. – Mi perdoni, sto da re. – Eccoli, eccoli. – Quanti sono? – Sette. – Chi va innanzi? – Il sauro di Gabrielli, ma Colonna lo passa. – Uh, Gesú Maria! – Che è stato? – Una creatura sotto un barbero. – Sarà morta certo. – Povera madre! – Lo portano via? – No, no. Era un cane. – Manco male. – Dica chi vuole, è un gran piacere la forte immaginativa. Io ho avuto il Corso di Roma dalla piazza de’ Gesuiti di Vienna».

Si consideri anzitutto l’estrema felicità e abilità dell’impostazione della scena: con la doppia prospettiva fra interno ed esterno sull’apertura della finestra posta fra la visuale sul Corso e quella su ciò che si svolge entro la stanza in cui gli invitati arrivano, prendon posto, si scambiano complimenti e rapide, gustose battute che spostano e rispostano l’attenzione fra l’interno e la scena sempre piú animata del Corso fino all’incalzare della corsa dei barberi con la variante della falsa disgrazia di un ragazzo risolta in un suo singolar lieto fine.

Ma soprattutto e insieme si consideri il fatto che la nostalgia e il ricordo si commutano nella forza costruttiva di un quadro animato, preciso, incantevole, in cui ogni voce ha il suo accento e presuppone un movimento, un passo, un’impostazione di scena e di visuale.

E si concluderà con l’osservazione che la lontananza, la solitudine del poeta nella ghiacciata Vienna invernale e il loro incontro con il fervido ritmo della rievocata vita romana, colta nel culmine di un’occasione socievole e spettacolare, funzionano come motore sentimentale e forza e limite rappresentativo di una scena in cui non si inserisce nessuna nota di aperto rimpianto (la sigla finale è la soddisfazione di aver fatto rivivere con la fantasia la scena amata), la forza nostalgica si è fatta interamente energia e misura di ritmo e di evidenza rappresentativa.

Né per caso questa lettera appartiene ai primi anni viennesi quando l’esercizio della vita e degli affetti venne come recuperato tutto poeticamente (e con un procedimento piú apertamente presente appunto nello sviluppo di questa lettera) nell’opera melodrammatica.

Vita e finzione, realtà e sogno teatrale, valore della «forte immaginativa», capacità di depurare ed esaltare la partecipazione sentimentale in canto ed azione melodrammatica, sono al centro della tensione espressiva metastasiana, della sua vocazione ed intenzione teatrale, in accordo intimo con tendenze preminenti nella stessa Stimmung e poetica arcadica.

Cosí come la poetica metastasiana riprende e personalmente rinnova e rinforza i termini fondamentali della tensione poetica arcadica e delle stesse vere e proprie «poetiche» a lui piú vicine: sogno in presenza della ragione, pazzia che sgombra le pazzie, per usare i bandi piú arcadici del Ceva e del Gravina. Nozioni di poesia ibride, impure, dualistiche quanto si vuole, ma tese a rendere una speciale visione della vita e della poesia storicamente molto significative dopo il barocco e, se rivissute dall’interno con una coerente forza poetica, come nel caso del Metastasio, tutt’altro che preclusive rispetto ad una realtà poetica, se si vuole limitata e poco profonda, ma, nei suoi limiti, genuina e capace di parlare anche a noi quando non la si sottoponga ad antistorici paragoni e richieste impossibili, quando la si segua nel suo percorso interno e nella sua espressione di un’umanità storicamente compresa.


1 Epistolario, in Opere, IV, p. 8, a cura di B. Brunelli, Milano 1943-1954. Si confronti a proposito la battuta dell’Attilio Regolo «Inutilmente nacque / chi sol vive a se stesso» (Atto, II, scena VII) e quella, ripresa nella lettera, del Sogno di Scipione «Non meritò di nascere / chi visse sol per sé».

2 28 aprile 1766, al fratello, Opere, I, p. 457.

3 Opere, III, p. 107.

4 9 febbraio 1767, Opere, IV, pp. 526-527.

5 Vedi G. Falco, Sulla coscienza civile del Settecento italiano, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», classe di scienze morali, 90, 1955-1956, che insiste sull’essenziale importanza del passaggio dalla secentesca «ragion di stato» alla «pubblica felicità» settecentesca.

6 Opere, IV, p. 555.

7 Vedi M.A. Aluigi, Storia dell’abate Pietro Trapassi Metastasio, Assisi 1783, pp. 132-134.

8 Lettera allo Jommelli dell’8 aprile 1750, in Opere, III, p. 508: «Oggi si celebra il nome del conte; dimani la nascita della marchesa; torna quell’amico, bisogna correre col benvenuto; parte quell’altro, bisogna augurar buon viaggio; mademoiselle si sposa e si congratula; madama è di parto e si trotta. Un ministro è promosso, ad maiora; un altro si fa applicar un cristiere, proficiat: insomma fra queste incomode inezie, che si chiamano uffici civili, fra l’andare, il venire, le riverenze, i complimenti, le offerte, le proteste, e molte altre gentilissime maniere di rompersi scambievolmente il piú bel di Roma ci troviamo alla fine della settimana stanchi, rifiniti senza aver fatto cosa alcuna».

9 Lettera al Mattei, ottobre 1775, Opere, V, p. 363.

10 Opere, III, p. 324.

11 N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, pp. 235-265.

12 Opere, II, p. 763.

13 L’origine delle leggi, Opere, II, p. 765.

14 La strada della gloria, Opere, II, p. 759.

15 L’origine delle leggi, Opere, II, p. 766. Nell’Ezio l’affermazione si configura nel contrasto fra giorni ed opere («Il viver si misura dall’opre e non da’ giorni»). A rilegger l’elenco di «sentenze e massime» aggiunta alla Vita dell’Aluigi, si misura anche meglio la forza di scuola di saggezza del Gravina e la versione piú mondana e cortigiana che essa prese nel Metastasio.

16 V. lettera a Luigi Di Cahusac, 12 agosto 1751 (Opere, III, p. 665) e lettera allo Zanetti, 21 agosto 1751 (Opere, III, p. 670).

17 Lettera al fratello, 15 maggio 1769 (Opere, IV, p. 732).

18 Lettera al fratello, 28 settembre 1761 (Opere, IV, p. 226): «La fermentazione che agita tutta l’Europa pare che abbia oggetto piú vasto che i Gesuiti che le servono di pretesto. L’anarchia temporale e spirituale è un pezzo che si prepara nelle spiritose macchine della nostra bella letteratura».

19 Lettera ad Agostino Gervasi, 10 ottobre 1771 (Opere, V, pp. 109-110).

20 Lettera a Sigismondo Chigi (destinatario, in vero, non bene scelto!), 27 giugno 1768 (Opere, IV, p. 632).

21 Lettera del 23 novembre 1767 (Opere, IV, pp. 580-581).

22 Simili frasi richiamano assai da vicino certi commenti dolenti di Maria Teresa sul secolo «illuminato» («In generale questo spirito di sedizione comincia a diventare dappertutto comune; è dunque la conseguenza del nostro secolo illuminato. Ne soffro spesso, ma la depravazione dei costumi, quest’indifferenza per tutto ciò che riguarda la nostra santa religione, son causa di tutti questi mali», scriveva, a proposito di un tumulto popolare, Maria Teresa, il 2 giugno 1775, alla figlia Maria Antonietta. V. Consigli matrimoniali alle figlie sovrane, a cura di A. Frugoni, Firenze, 1947, pp. 181-182). Del resto certe massime e certi consigli dell’imperatrice (op. cit., pp. 209-211) consuonano chiaramente con massime metastasiane sul «bene pubblico» che è lo scopo dei re, sul re come «padre dei suoi popoli», sulla sua scelta di ministri e consiglieri virtuosi, sulla «clemenza» (pur con la precisazione piú esperta di non adoperarle «indifferentemente per tutto»), secondo gli schemi astratti della Clemenza di Tito, e d’altra parte con una maggiore concreta sollecitudine di lotta contro gli «abusi» della classe dominante che situa, malgrado tutto, la posizione dell’imperatrice in una zona piú irrorata di illuminismo.

23 Lettera allo Zanotti, 12 marzo 1778 (Opere, V, pp. 497-498).

24 Lettera al Pasquini, 27 agosto 1759 (Opere, IV, p. 103).

25 Si veda cosí l’interessante volumetto Estratto di lettere dell’abate Metastasio, Imola 1828, che raccoglie lettere metastasiane in funzione reazionaria.

26 Lettera dell’8 maggio 1769 (Opere, IV, pp. 728-729).

27 Lettera del 16 marzo 1772 (Opere, V, p. 149).

28 Su cui si vedano le mie pagine nel Preromanticismo italiano, 2a ed., Napoli 1959, pp. 142-148.

29 Lettera del 23 maggio 1771 (Opere, V, p. 85).

30 Sul tema delle stagioni, cosí congeniale allo spirito arcadico e di primo Settecento, si veda ora il libro di L. De Nardis, Saint Lambert. Scienza e paesaggio nella poesia del Settecento, Roma 1961, pp. 124-126, che elenca opere e componimenti dedicati alle stagioni sino alla soglia dell’Ottocento.

31 Lettera alla Pignatelli, 23 ottobre 1749 (Opere, III, pp. 436-437).

32 Lettera al fratello, 11 giugno 1770 (Opere, V, p. 20).

33 Lettera al fratello, 21 gennaio 1771 (Opere, V, p. 69).

34 Si pensi almeno al Voltaire e al ricordo goethiano in Dichtung und Wahrheit. Per il Metastasio si vedano varie lettere di quell’anno (Opere, III, p. 1075, p. 1084, p. 1089) in cui fondamentale è il ricorso alla provvidenza i cui disegni non si vogliono discutere, come non si vuol discutere l’atteggiamento dei «pastori dei popoli» di fronte a «fenomeni cosí spaventosi ed ostinati».

35 Si veda la lettera alla Pignatelli, 22 aprile 1762 (Opere, IV, pp. 249-250).

36 Opere, III, p. 470.

37 Si veda il finale della lettera al Trivulzio (16 giugno 1753, Opere, III, p. 836) che rifiuta il «carere dolore» se ciò implica rifiuto di sensibilità e sottolinea la scelta metastasiana di illusione e sogno come migliore, piú consolante realtà per gli uomini.

38 Si vedano le lettere al Grisi, 12 luglio 1773 (Opere, V, pp. 244 e 461).

39 Si rileggano in proposito le lettere per la morte della Romanina al fratello, 13 marzo 1734 (Opere, p. 105) e ad un amico, 3 aprile 1734 (Opere, III, p. 107) e quella, per la morte dell’Althann, all’Orzoni, 11 aprile 1755 (Opere, III, p. 1005), dove lacerazione e saggezza meglio s’incontrano.

40 Metastasio andava soggetto spesso a «convulsioni» e chi gli era piú vicino poteva osservare il divario fortissimo fra l’apparente felicità e calma del poeta e la sua ipersensibilità che lo rendeva infelice, timido e pauroso, indeciso (sí che l’eroismo tanto esaltato nei suoi drammi sembra una proiezione esasperata di una volontà di autodominio faticosamente esercitata sui propri nervi malati e sulla propria timidezza: paura della guerra quando si avvicina a Vienna, paura dei cambiamenti di corte che possono mettere in pericolo il suo impiego ecc.). E cosí il conte Perlas poteva (in una lettera citata dall’Aluigi, op. cit., p. 124 n.) citare il suo caso come quello di un estremo contrasto fra la sua presunta felicità e la sua reale infelicità. Ma, nelle lettere, solo in rari momenti la sofferenza si scopre in maniera piú esplicita: v. la lettera al fratello del 7 novembre 1744 (Opere, III, p. 252) e la lettera al Filipponi (13 febbraio 1748, Opere, III, p. 341): «Io trovo nella filosofia argomenti efficaci a fortificarmi contro la morte, ma non già contro un cattivo abito di salute piú terribile di quella perché ci priva e del piacer di vivere e del riposo del morire...». «Con l’incomodo tenore di mia salute confesso che non sta perfettamente in equilibrio la mia tolleranza: ma la carriera è lunga e la filosofia è zoppa. Io non so né che influisca né come comunichi la nostra macchina con l’anima nostra, essendo sostanza di cosí diversa natura: ma sento piú vivamente di quel che vorrei che questa mia povera animetta paga i difetti del fodero suo mal sicuro».

41 «Cosí alterna la Provvidenza i mali ed i beni, perché né le disgrazie ci opprimano né le felicità ci corrompano». Lettera all’Azzoni, 29 febbraio 1768 (Opere, IV, p. 603).

42 Lettera al fratello, 27 febbraio 1758 (Opere, IV, p. 41).

43 14 giugno 1738 (Opere, III, pp. 165-166).

44 L’ordine, il sistema dominano la vita del Metastasio specie nel periodo viennese quando la ripetizione esatta dell’orario della giornata ne fece un «oriulo» (come dice l’anonimo autore della Vita di Pietro Metastasio, Venezia, 1784, p. 163)

45 Opere, IV, p. 372. La frase è riferita alla sua «filosofica moderazione», alla sua sopportazione dei propri malanni fisici. Ma essa coglie bene l’illusione metastasiana di adeguare nella sua vita privata una forma di singolare eroismo e la reazione piú istintiva a questo sforzo penoso.

46 Quella «prudenza» che il biografo settecentesco citato, l’Aluigi, esalta come «eroica» anche nel campo di una diplomazia cortigiana-anticortigiana, segnando uno dei due punti di concordanza settecentesca piú esplicita.

47 Si veda ad es., fra le molte, la lettera al Mastraca, 17 gennaio 1739, in cui il Metastasio si qualifica come l’«arciconsolo dei cacadubbi» (Opere, III, p. 179).

48 I biografi contemporanei finirono per mitizzare la bontà del Metastasio che ebbe (per dirla con l’anonimo autore della Vita di P. Metastasio, sopra citata, p. 60) «un cuore tutto cuore», risalendo alla realtà biografica dall’accertamento della ricca sensibilità che si espande nella poesia.

49 «Non è stata tutta prudenza filosofica quella omissione di congedo che V. S. Illustrissima vuole ascrivermi a virtú: non so se per suggerirmi umanamente una scusa alla mia mancanza, o se per sostenere ingegnosamente l’impegno di ritrovare in me commendabile anche quello che merita riprensione. Io non saprei negare di aver scelto questo come partito migliore, ma non potrei onestamente tacere di averlo debolmente eseguito. Ogni giorno della settimana che precede alla sua partenza uscii di casa risoluto di non farle altra visita, ed ogni giorno della medesima sono stato alla sua porta a procurare il contrario. Insomma è avvenuto, come in questo, quello che avviene in tutto alla maggior parte degli uomini, che combattuti sempre fra la ragione e il desiderio, non sanno mai esser tanto deboli né tanto forti che basti a secondar liberamente il cuore: o ad ubbidir senza limitazioni alla mente...». (Vienna, 1734, Opere, I, p. 118).

50 Si vedano le lettere del 12 maggio, 21 giugno, 7 luglio 1732, del 19 gennaio, 23 febbraio, 4 luglio 1733.

51 «Grazie della bella, chiara, nitida, sincera, breve, espressiva e veridica relazione della festa. Voi me l’avete quasi quasi fatta vedere» (al Riva, 3 settembre 1732, Opere, III, pp. 70-71).

52 C. De Brosses, Viaggio in Italia, ed. a cura di G. Natoli, Firenze 1957, II, pp. 369-370. Il De Brosses ha pagine molto fini sul Metastasio e fra l’altro coglie bene due motivi: la capacità metastasiana di legare recitativo e arie «di passione» in un’unica «espressività» e la capacità di ricreare interamente il materiale preso dal teatro francese e spagnuolo.

53 Il Metastasio è, con i limiti che ciò comporta, proprio all’estrema punta di quell’antipatia per i «natural confusi» «che vorrebbon dir tutto» di cui parlava con tanto sdegno il Menzini nella sua Arte poetica.

54 Lettera al Farinelli del 12 novembre 1749 (Opere, III, pp. 437-444).

55 Sul «nazionalismo austriaco» del Metastasio si vedano le giuste osservazioni del Varese (Saggio sul Metastasio, Firenze, 1950, pp. 20-21). L’Italia è, per il Metastasio, la patria della lingua, dei ricordi giovanili, della bella letteratura difesa, ove occorra, contro gli stranieri. Ma dal 1730 in poi egli si sente suddito austriaco e nulla appare piú errato delle ricerche, dal Carducci in poi, della sua italianità e del suo romanesimo in funzione prerisorgimentale. Ché la stessa esaltazione retorica degli eroi romani è per lui in funzione di un’ideale educazione della classe nobiliare imperiale e Vienna è la Roma dei tempi moderni. In questo senso non solo prevale in lui lo slogan di molti letterati settecenteschi «ubi bene, ibi patria» (e in senso, in verità, assai privato), ma il «dovere» del letterato di corte e, alla fine, la convinzione delle ragioni di un impero romano-austriaco di cui le province italiane sono felici dipendenze. La patria locale, Roma e lo stato pontificio, hanno per lui poi scarsissima importanza, né mi pare che di un patriottismo romano-pontificio si possa davvero parlare anche nel Settecento. Roma è la capitale della Chiesa, sostegno religioso dell’omnis potestas a Deo consolidata per lui nell’impero asburgico. Ma, come dicevo, nelle relazioni delle vicende belliche prevale in genere il gusto quasi teatrale delle vicende in se stesse (cfr. lettera al fratello, 9 giugno 1760, Opere, IV, p. 145) in cui l’indifferenza personale del relatore sfiora il cinismo; «Il sipario è alzato, stiamo ora attenti alla commedia». Anche se, quando la fortuna è ostile agli austriaci e la situazione si fa per loro rischiosa, non mancano espressioni sinceramente addolorate del buon suddito (cfr. lettera alla Orzoni, 11 novembre 1759, Opere, IV, pp. 119-120).

56 Si vedano, fra le altre, le lettere a pp. 57, 85, 99 del volume IV.

57 2 novembre 1743 (Opere, III, p. 239). E ancora le lettere del 18 marzo 1743 (Opere, II, p. 233), del 29 gennaio 1753 (Opere, I, pp. 782-788), del 30 agosto 1751 (Opere, III, pp. 854-855), del 26 maggio 1760 (Opere, IV, pp. 142-143), del 14 luglio 1766 (Opere, IV, pp. 478-479) o quelle piú tristi degli ultimi anni, immalinconite dalla decadenza fisica e mentale del fratello, dalla sua ghiottoneria insaziabile, dalle sue ultime risibili vanità.

58 Opere, IV, pp. 38-39.

59 Opere, III, p. 266.

60 Al Mattei, 1 aprile 1766 (Opere, IV, pp. 453-454).

61 Alla Bulgarelli, 27 gennaio 1731 (Opere, III, pp. 52-53).